domenica 10 marzo 2019

Dopo l’ictus: «Il passo è diventato lento, le parole hanno ancora più valore»

Un grande giornalista racconta come la riabilitazione vera si realizzi anche e soprattutto con comunicazione e relazione


Prima. Trovavo che si parlasse troppo spesso di disabili. E quanti saranno mai? E le lettere sulle barriere architettoniche? Troppe. Prima, se non trovavo un posto «residenti» per l’automobile, perché c’era il fatidico segnale... beh magari tiravo qualche accidenti. Prima. Ero stato un giornalista. Poi sono stato un giornalista in pensione che si divertiva a fare fotografie agli eventi piccoli e grandi. Prima insegnavo alle università di Milano e Pavia: treni e tranvai, metrò, scale mobili bloccate non mi facevano certo paura. Non ero mai stanco. Prima non sentivo i miei settant’anni. Improvvisamente il 2 gennaio 2012, mentre stavo finendo le vacanze a Parigi, un «fulmine» ha devastato il mio cervello. Immediato ricovero nella notte all’ospedale Saint Joseph: diagnosi ictus. Con un medio grado di afasia ed emiparesi destra. Mi curano per stabilizzarmi e con grande fretta di trasferirmi a Milano in un Centro specializzato, per paura che «perdessi» l’italiano, visto che là riuscivo a parlare soltanto francese, persino con mia moglie.


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