Non tutti si ammalano di COVID, anzi, c'è chi non si ammalerà proprio mai grazie ad un’immunità totale. E proprio questo è un grande punto interrogativo per la scienza. Le infezioni da Sars-Cov-2, sin dagli albori della pandemia, dimostravano un’enorme variabilità di ogni soggetto, ovvero una risposta al virus differente da individuo a individuo.
Si sta cercando di studiare questo fenomeno con le prime ricerche condotte dall’Università di Melbourne e dalla Fondazione per la ricerca biomedica dell’Accademia di Atene. L’immunità al COVID è solo un esempio dell’impermeabilità immunitaria propria di alcuni soggetti della specie umana. In qualsiasi pandemia globale mai verificatasi è stata registrata una forte pressione selettiva. D’altro canto, come confermato da Fausto Baldanti, esperto del Laboratorio di Virologia Molecolare del policlinico San Matteo di Pavia, in tutti i casi di malattie infettive c’è una quota di persone che sono naturalmente resistenti.
La base di partenza della ricerca, in questo caso, è stata rappresentata dall’Hiv-1. In quel caso i ricercatori specializzati infatti avevano scoperto, tempo fa, un meccanismo di diminuzione dei recettori delle chemochine DARC (immunideficienza genetica) che conferisce resistenza al Plasmodium vivax.
Visti alcuni fattori di somiglianza tra il comportamento di questo patogeno e quello del coronavirus, analogo sarà il percorso d’indagine sulla genesi della resistenza da Sars-Cov-2.
Sebbene non siamo ancora a conoscenza delle cause genetiche e immunologiche di questa resistenza all’infezione, ci sono dei fattori naturali che secondo molti prevengono il contagio in maniera determinante. Un esempio concreto è rappresentato dalla presenza di un’immunità preesistente, crociata da infezioni similari. Ad oggi si stima che il 25/30% delle persone che non prendono il COVID abbia una risposta T-Cellulare residuale provocata da un’infezione parente del coronavirus stesso.
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